L’analisi pista del weekend ci porta a Città del Messico, dove l’aria più rarefatta a causa dell’altitudine crea non pochi grattacapi agli ingegneri.
Il circuito Hermanos Rodriguez di Città del Messico, sede della diciassettesima prova del campionato del mondo, conta 17 curve dislocate sulla lunghezza complessiva del tracciato di 4304 metri. Particolarmente spettacolare è la sezione del terzo settore che si snoda all’interno dello stadio, con tre tribune colme di tifosi a delineare una vera e propria arena della Formula 1. Analisi Pista Messico
L’autodromo dispone di due lunghi rettilinei, motivo per cui la power unit riveste un ruolo importante all’interno della prestazione sul giro. Il pilota spinge al massimo sull’acceleratore per il 59% del tempo.
La parte ibrida del motore migliora le prestazioni di 2.3 secondi al giro e incrementa la velocità massima di circa 14 km/h (dati Magneti Marelli).
Una gara…senza fiato!
Fattore caratteristico della tappa messicana è l’altitudine, con il Gran Premio che si disputa alla quota record di 2285 metri. Ad un’altezza simile l’aria è più rarefatta, con una densità e una concentrazione di ossigeno inferiori di circa un quarto rispetto al livello del mare, andando a ripercuotersi su diversi aspetti della monoposto.
Una minore quantità di aria a parità di volume ad esempio riduce il raffreddamento delle gomme, costringendo i piloti a prestare un’attenzione maggiore alla loro usura. La rarefazione dell’aria diminuisce anche il raffreddamento dell’asfalto, che quindi con le sue alte temperature, a volte superiori ai 50°C, incrementa ulteriormente l’usura degli pneumatici.
Il surriscaldamento coinvolge anche tutte le componenti della power unit, aumentando i rischi legati all’affidabilità. E’ possibile quindi che i team si presentino in Messico con delle configurazioni aerodinamiche volte a favorire il raffreddamento delle componenti interne, inficiando però sull’aerodinamica della monoposto.
Motori in affanno
La maggior rarefazione dell’aria inoltre costringe il compressore ad un lavoro maggiore per fornire l’apporto adeguato di ossigeno al motore per la combustione. Il turbocompressore infatti comprime l’aria prima che questa entri nei cilindri per la combustione. A causa della densità minore dell’aria, per garantire la stessa quantità di ossigeno esso deve lavorare a velocità maggiori, grazie anche alla spinta dell’MGU-H (il motore elettrico associato al turbo).
Tuttavia, il turbocompressore della power unit di ogni motorista è omologato dalla FIA per non girare ad una velocità superiore del “burst point”, il punto in cui una rottura causerebbe un’esplosione della scatola del turbo con conseguente spargimento di detriti in pista.
Questa velocità di soglia è uguale al massimo ai 120.000 rpm previsti dal regolamento e dipende dalle caratteristiche della power-unit. Un propulsore più efficiente, ossia che richiede meno energia per compiere lo stesso lavoro, consente l’adozione di un turbocompressore più grande, che in condizioni normali corrisponde ad un motore più performante.
Un turbocompressore più grosso tuttavia avrà un “burst point” inferiore. A grandi altitudini quindi, il compressore potrebbe non lavorare a sufficiente velocità per garantire l’adeguato apporto di ossigeno al motore, inficiando sulla potenza e le prestazioni.
I motori Renault invece, che anche a causa di una minore efficienza della parte ibrida montano compressori più piccoli, in linea teorica dispongono di “burst point” più alto, godendo di un certo vantaggio in queste condizioni. Non a caso la Red Bull ha vinto le ultime due edizioni del Gran Premio del Messico, quando gareggiava ancora con le Power Unit Renault.
Una prova che l’aria più rarefatta può sovvertire le normali gerarchie in pista, anche a considerando i suoi effetti sull’efficienza aerodinamica.
Meno carico a causa della bassa densità dell’aria
La variabile dell’aria rarefatta infatti si ripercuote anche sull’aerodinamica della vettura. La ridotta resistenza aerodinamica all’avanzamento fa sì che sui 1310 metri del rettilineo principale le monoposto raggiungano velocità superiori ai 360 km/h. Allo stesso tempo anche i consumi si abbassano, con una media di benzina utilizzata in gara inferiore ai 100 kg, portando i piloti a dover prestare meno attenzione rispetto al solito a questo parametro e a spingere maggiormente.
Parallelamente la deportanza generata, ossia il downforce, è inferiore rispetto a che se si corresse al livello del mare. A parità di configurazione aerodinamica, il carico generato è il 75% di quello che sarebbe disponibile ad un circuito situato al livello del mare come Bahrain o Montecarlo. Per questo motivo diventa molto importante anche il grip meccanico, ossia quello garantito dalla geometria delle sospensioni.
Il grip ridotto a causa del downforce più basso inoltre riduce le capacità frenanti della monoposto, un fattore che i piloti dovranno essere in grado di prevedere.
Un assetto di compromesso
I team prediligono un assetto intermedio per quanto concerne il carico aerodinamico, per mantenere una buona percorrenza nei rapidi curvoni della sezione delle esse senza intaccare eccessivamente la velocità di punta sui due rettilinei. Analisi pista Messico
Sempre per il secondo settore gli ingegneri devono trovare il miglior compromesso tra rigidità e morbidezza del gruppo sospensioni per garantire reattività nei cambi di direzione e stabilità in fase di percorrenza delle lunghe curve.
Sono poi presenti numerose curve lente dove, a causa delle basse velocità, il grip meccanico assume un’importanza maggiore rispetto al carico aerodinamico. Diventa fondamentale in particolare anche la trazione, ossia la capacità di scaricare a terra tutta la potenza della power unit senza far pattinare le gomme. In particolare, una buona uscita dalle curve 3 e 17 permette di non perdere tempo dei lunghi rettilinei seguenti.
Il ridotto carico aerodinamico a causa dell’altitudine tende a far scivolare le auto in fase di percorrenza di curva. Il fenomeno è causa di un forte graining sugli pneumatici, motivo per cui Pirelli ha deciso di portare le mescole intermedie della gamme: C2,C3 e C4.
L’usura è acuita dalle alte temperature dell’asfalto per via dell’aria più rarefatta, che a sua volte riduce anche il raffreddamento delle gomme.
Una pista impegnativa per i freni analisi pista Messico
Il ridotto carico aerodinamico associato alla maggior rarefazione dell’aria, riduce il grip della monoposto, allungando quindi le frenate e innalzando le temperature dei freni.
Contrariamente alle altre componenti della vettura tuttavia, la minor densità dell’aria e quindi il raffreddamento ridotto non causano eccessivi problemi di surriscaldamento all’impianto frenante. Su una scala da 1 a 5 i tecnici Brembo hanno attribuito alla pista la massima severità per i freni.
L’impianto viene utilizzato in 10 delle 17 curve totali, per un tempo di 15 secondi al giro e una decelerazione media di 3.3 g.
La frenata più impegnativa è quella di curva 1 al termine del rettilineo principale. I piloti passano da 362 km/h a 110 km/h in appena 145 metri e 2.5 secondi. La forza massima applicata sul pedale del freno è pari a 177 kg, per una decelerazione di picco uguale a 5.4 volte quella di gravità terrestre.
Molto elevata anche la frenata al termine del secondo rettilineo prima di curva 4, con un picco di 4.6 g (dati Brembo).
L’energia totale dissipata in gara dai freni è molto elevata, pari al doppio di quella del Gran Premio del Regno Unito. Una monoposto in gara dissipa 258 kwh di energia, pari circa al calore necessario per portare a ebollizione 2800 litri d’acqua.
Qualora Lewis Hamilton fosse in grado di sfruttare tutte le variabili, il Messico potrebbe essere nuovamente la terra di conquista per il titolo mondiale.
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